mercoledì 1 aprile 2015

Imperiale non fa male



Questo un lungo post trovato qualche anno fà su internet, salvato e sopravissuto a miei vari HD. 


Che si tratti di fantasia o realtà, è comunque un punto di vista dell'inizio degli anni 90, dal sapore attendibile. Scritto bene a tratti avvincente come un film di Tarantino:) 

Buona lettura!

                                                                                                  Zappa


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....un Anonimo posta:


QUESTO TI RESTERA IN TESTA PER TUTTA LA VITA
Questa storia parla di una cosa che è successa sulle sponde del Tirreno nella
prima metà degli anni novanta, una cosa con cui molti ragazzi della mia
generazione sono per lo meno venuti a contatto ma di cui non ho mai sentito
parlare sui media se non di sfuggita, nella solita trita retorica delle stragi del
sabato sera o della gioventù bruciata. Questa storia parla di una cosa che in
pochi sono riusciti a inquadrare, una cosa il cui nucleo è stato secondo me
compreso solo da pochissime persone.
Questa storia è un atto d’amore verso un periodo che ha segnato, nel bene e
nel male, la mia vita, e che mi ha lasciato sulla pelle segni che difficilmente
andranno via. Questa storia è un tributo a tutte le persone che mi hanno
guidato e poi accompagnato in questo vortice, ed è anche un modo per
riportare alla mente e sistemare situazioni, personaggi e sensazioni che si
fanno col passare degli anni sempre più sbiadite e confuse.
Questa storia è una storia di fantasia e i personaggi che vi compaiono, anche
quando hanno nomi reali, non si comportano come facevano nella realtà.
Non ho voluto modificare certi nomi, quelli dei personaggi della scena,
perché il risultato sarebbe stato grottesco, però le loro azioni e i tratti
negativi che essi possiedono nella storia sono frutto della mia fantasia. In
ogni caso, non volevo offendere né diffamare nessuno.
Le frasi che aprono i capitoli sono frasi di Franchino, e servono come
chiave di lettura di quanto segue. Sono sempre stato convinto che le favole e
i discorsi di Franchino contenessero tutto il senso di quell’esperienza, e mi è
sembrato naturale utilizzarli.
Un abbraccio a tutta la famiglia Imperiale, la famiglia più grande che io
conosca.

Club Imperiale

GUARDATE LA BOCCA: È ACCESA, BRILLA
La notte mi capita molto spesso di svegliarmi di soprassalto in un lago di
sudore, con le gengive doloranti. A tenere le mascelle serrate, i molari
vengono compressi l’uno sull’altro e iniziano a far male. Allora sogno che
mi stanno cadendo i denti, che li sento ballare tra le gengive e quasi sento il
bisogno di smuoverli per farmeli venire via. Sogno che apro la bocca
davanti allo specchio e vedo una macchia insanguinata. In bocca sento il
sapore del sangue. Mi copro il volto con le mani e poi le ritraggo e le
guardo, quasi compiaciuto.
Uno psicoterapeuta potrebbe trovare mille chiavi di lettura a questo sogno,
potrebbe chiedermi del rapporto coi miei genitori o della mia sessualità. Io
però ho una formazione scientifica, e so per certo che dietro a questo sogno
che mi perseguita c’è semplicemente quello che ho fatto ai miei neuroni nel
corso di tre anni della mia vita.


È DOVE OGNUNO DI NOI FA QUELLO CHE DESIDERA O PER
LO MENO LO SOGNA
Il generatore di corrente parte alle sei di mattina, e sta proprio sotto la mia
finestra. Inizia con un brusio, nemmeno troppo fastidioso. Poi, via via che ci
si fa l’orecchio, si fa sempre più forte, e il gas di scarico comincia ad entrare
dalla finestra. Così ogni mattina devo alzarmi, verso le sei e mezza, per
chiuderla. Luca, che ha la stanza accanto alla mia, ha risolto la questione
tenendo la finestra chiusa per tutta la notte. Io però col caldo non riesco ad
dormire.
Non sempre riesco a riprender sonno. Di solito la prima cosa che faccio è
affacciarmi alla finestra guardare il cielo, riempiendomi i polmoni del gas di
scarico. In genere è ancora buio, ma ci si può fare già un’idea della giornata
che può uscirne fuori. Non che questo serva a un granché. Qui le giornate
sono praticamente tutte uguali. L’alba in genere è di un colore sporco.
Raramente si riesce a distinguere l’orizzonte. Qualche nuvola bianca sparuta
macchia il cielo, e va avanti così tutto il giorno. Altre volte invece l’aria è
limpidissima e le nubi sono basse grigie spesse e coprono tutto il cielo. In
queste giornate si alza forte il vento dell’ovest e tira su tutta la sabbia, la
porta via dalla spiaggia e la rigetta verso l’interno, nel deserto. Per terra non
si sta granché, la sabbia dà piuttosto fastidio, ma per mare si fila alla grande.
14 luglio 2001. Ormai facevano quattro anni che ero via dall’Italia. Mi alzai
dal letto e mi avvicinai alla finestra. Cielo un po’ fosco, qualche nuvola
bianca qua e là. Una giornata come tante altre, appunto. E come tante altre
volte, anche quella mattina non riuscii a riprendere sonno. Alle sette scesi in
cucina. Bemvindo era appena arrivato, e facemmo colazione insieme.
Bemvindo è un nativo, ha la pelle nera come la pece che contrasta
vivamente col sorriso bianchissimo, sempre stampato sulla faccia rotonda.
Bemvindo ha una famiglia numerosa, i suoi fratelli sono pescatori, e quando
la stagione va male è lui che pensa a tutti gli altri. Bemvindo è uno dei più
ricchi del paese, e tutti lo rispettano. Bemvindo lavora per noi: è una sorta di
direttore generale. Seleziona e dirige il personale, prende le prenotazioni, va
a prendere e porta in giro i clienti con il pick-up.
Alle otto ero già pronto per andare in spiaggia. Dovevo preparare
l’attrezzatura. La prima lezione iniziava alle dieci: un italiano.
Io e Luca viviamo sull’isola di Boavista, nell’arcipelago di Capo Verde,
trecento miglia ad ovest del Senegal. Possediamo un albergo e un centro
sportivo sulla spiaggia di Estoril. Lui si occupa delle immersioni subacquee,
io del windsurf.
Luca era partito il giorno prima per Praia, la capitale, dove doveva sbrigare
alcune faccende burocratiche, così avrei dovuto sostituirlo per la sua
lezione. In genere ci sono sempre meno persone per il windsurf; le
immersioni vanno più di moda, specie tra gli italiani. Almeno in questa
stagione: d’autunno arrivano un sacco di tedeschi con le tavole. Ma
raramente prendono lezioni; spesso sono molto più bravi di me.
Alle nove era già pronto tutto, così mi sedetti sul bagnasciuga ad aspettare.
Una giornata come molte altre. Vento leggero da est. Mare piuttosto calmo.
Qualche nuvola bianca e riccioluta. Cielo azzurrognolo.
Mirko arrivò con mezz’ora di anticipo. Sui trent’anni, statura media, fisico
piuttosto atletico, molto abbronzato. Una persona apparentemente normale.
Mi si fece incontro con aria incerta e interrogativa.
– Scusi è lei… insomma è qui per le immersioni?
– Si. Io mi chiamo Jacopo, e tu?
– Mirko.
Ci stringemmo la mano con poca convinzione.
– Allora, Mirko, sai già come funziona? Non hai il brevetto, vero?
– No.
– Allora devi firmarmi la liberatoria.
Tirai fuori il pezzo di carta su cui Mirko dichiarava che si assumeva tutta la
responsabilità per quello che sarebbe potuto succedere e procedetti con le
rituali spiegazioni su come si fa a evitare l’embolia.
Mirko mi ascoltava con attenzione, sforzandosi di pormi domande
intelligenti per dimostrare a se stesso di avere capito.
– Allora, tutto chiaro, possiamo andare?
– Sono pronto.
Salimmo sul molo, saltammo sul gommone e accesi il motore. Mirko era
visibilmente emozionato.
Boavista non è che sia un paradiso per le immersioni. Non c’è barriera
corallina. Sul fondale non c’è granché da vedere: la sabbia bianca e
finissima si alza già con il mare appena mosso e intorbidisce l’acqua. E poi,
non essendo presenti formazioni coralline, le sole cose da vedere sono
alcuni relitti. Gli animali invece risultano spesso interessanti. Il mare è
pieno di tartarughe e di squali. Questi ultimi difficilmente attaccano l’uomo
e vederli nuotare, con la loro linea elegante, è sempre un bello spettacolo.
Sicuramente poi fa colpo su dei novizi.
Effettivamente Mirko ne uscì colpito. Mi pose svariate domande sulla fauna
marina alle quali cercai di rispondere come meglio potevo. Non mi sono
mai interessato di biologia marina e non credo di aver fatto bella figura né
di avere trasmesso un particolare entusiasmo, mi sentivo un po’ come un
conduttore di programmi scientifici di serie B. Mirko in ogni caso pareva
soddisfatto e non accennava a voler interrompere la conversazione e
rientrarsene a casa. Non che la cosa mi dispiacesse, sembrava pure
abbastanza simpatico e mi pareva fosse sinceramente interessato a
conversare con me. Io poi quella mattina non ero neanche di cattivo umore.
Alla fine, esaurito l’argomento fauna marina, fui io a spostare la
conversazione.
– Senti, la prossima lezione ce l’ho fra due ore, perché non vieni in albergo
che ti offro un caffè?
Pare che il caffè del nostro albergo sia squisito. Dico pare perché io il caffè
non lo posso bere, già ho difficoltà di mio a dormire e col caffè finirei per
passare tutte le notti in bianco. Luca ha fatto portare una macchina apposta
dall’Italia, e periodicamente si fa inviare dei sacchi di caffè torrefatto da una
certa rinomata piantagione in Senegal. Lo fa preparare inoltre solo con un
tipo particolare di acqua in bottiglia che si fa spedire dalla Campania. Mi
posizionai dietro al bancone del bar, nella veranda, e preparai il caffè a
Mirko. Io invece mi servii un bel bicchiere di grogue, una liquore locale a
base di canna da zucchero. Una sorta di rum molto dolce. Inizialmente la
conversazione verté sull’albergo e sulla nostra attività, poi, quando l’alcool
iniziava a sciogliermi, decisi che era il momento di passare a domande un
po’ più personali.
– Sei qui da solo?
Mirko effettivamente non aspettava che di passare a parlare di questioni
personali. Mi raccontò che era lì con la moglie, e mi parlò della situazione
in cui si trovava. Sposato da due anni, aveva conosciuto la moglie solo una
decina di mesi prima del matrimonio. Il classico colpo di fulmine. Era
arrivato al punto in cui si chiedeva se aveva fatto bene. Certo, l’amava, di
questo era sicuro, ma era come se non riuscissero più a condividere le cose.
Menavano esistenze separate. E proprio questa vacanza, che era stata
pensata per colmare la voragine che tra di loro andava aprendosi, aveva
portato a galla ulteriori problemi: lei si piazzava sulla spiaggia a prendere il
sole e non voleva muoversi per niente al mondo. Neppure per fare il bagno.
Lui si annoiava, e così aveva deciso di fare da solo quello che avrebbe
preferito fare assieme a lei.
Lo ascoltai pazientemente. Mirko aveva trent’anni, solo uno più di me.
Sembrava una persona perbene, una moglie, una vita normale. Era questa la
normalità, pensavo? Era questo di cui avevo avuto bisogno tutte le volte che
mi ero svegliato nel cuore della notte, in un lago di sudore e con le mascelle
indolenzite a forza di tenere le gengive serrate?
Povero ragazzo, mi faceva pena: chissà cosa si aspettava dalla vita, quanto
aveva investito sul suo matrimonio e sulla sua carriera. Ma che avrei potuto
fare per aiutarlo? Fargli cavalcare le onde, portarlo a fare altre immersioni,
magari a vedere il relitto di qualche nave, mi pareva un’inutile crudeltà,
come l’ultimo pasto dei condannati a morte. Tanto di lì a pochi giorni se ne
sarebbe tornato in Italia.
Cercai di confortarlo con frasi di circostanza, ma evitai accuratamente di
metterci del personale e di fare paragoni con la mia situazione. Chissà cosa
poteva pensare di me? Avrebbe voluto scambiare la sua vita con la mia? La
mia vita, che doveva sembrargli così avventurosa, così libera. Albergatori in
un’isola tropicale. Suona come gli articoli “Come cambiare vita” delle
riviste maschili. Elettrizzante. Se solo avesse saputo.
La sera stessa, verso le dieci, Mirko e la moglie si presentarono al bar.


QUESTO È IL SOGNO DI UN BAMBINO
I miei genitori erano morti da circa un anno in un incidente d’auto. Io e
mia sorella eravamo rimasti a vivere nella casa di famiglia in città, solo
che lei si era trascinata in casa il suo ragazzo. Lei aveva un anno meno di
me, ma non mi aveva mai stimato come di solito ci si aspetta che una
sorella stimi il fratello maggiore: invece mi aveva sempre trattato con aria
di superiorità. Dopo la morte dei miei genitori la situazione era peggiorata.
Giovanni faceva l’avvocato e aveva ventotto anni, otto più di lei. Stavano
insieme da almeno un anno. Ai miei genitori piaceva. Era un buon partito.
Quindi non avevo scuse per oppormi alla sua presenza, che però mi pesava
decisamente. Non che tentasse di farmi da padre, o da fratello maggiore.
Semplicemente, lasciava trasparire che mi considerava un ragazzino che
doveva ancora crescere e capire come va il mondo. E mia sorella pendeva
dalle sue labbra.
Io per parte mia mi ero buttato nello studio, e avevo limitato al minimo i
contatti sociali. Lei e Giovanni insomma mi guardavano dall’alto in basso,
con la sincera convinzione che prima o poi avrei smesso di passare le
nottate sui libri e iniziato a fare una vita più normale, come tutti i miei
coetanei. Compassione, ecco quello che provavano per me. Compassione
per un povero sfigato che non avrebbe potuto farcela da solo dopo la morte
dei nostri genitori e che avrebbe avuto bisogno del loro consiglio fraterno.
Poi una mattina di febbraio avevo sbagliato strada. Ero passato alla
copisteria in via San Gallo a ritirare delle dispense, e mi stavo recando
verso le aule di via Capponi. Incrociai Alessia in piazza Santissima
Annunziata e la salutai distrattamente, la testa persa in qualche altro posto.
C’eravamo presentati, la conoscevo di vista, ma non avevo mai avuto modo
di conversare con lei.
– Jacopo, non vieni oggi a chimica organica?
– Si, appunto sto andando lì.
– Ma guarda che oggi facciamo lezione al dipartimento, in via Maragliano.
Viso un po’ squadrato, occhi e bocca di piccole dimensioni, Alessia non era
particolarmente bella. Tuttavia aveva un modo di guardare le persone, una
certa luce negli occhi che la rendevano decisamente seducente.
Dopo le prime frasi di circostanza – esami, piani di studio, progetti – il
silenzio scese imbarazzante tra noi. Ma fu lei a risolvere l’impasse,
ponendomi una domanda diretta e disarmante come un pugno allo
stomaco:
– Jacopo, ma perché hai sempre quello sguardo opaco perso nel vuoto?
Non mi era mai capitato che una persona desse l’impressione di voler
gettare il suo sguardo così profondamente dentro di me. Forse per paura di
vedere il marcio che ho dentro, mi dicevo. Forse, più prosaicamente, perché
non interessava. E poi io ho sempre detestato le persone che si approfittano
e vomitano addosso tutti i loro guai a persone che conoscono appena. Però
con lei era diverso, e mi sembrava che fosse lei a interessarsi a quelle che
potevano essere le cause del mio malessere e a quello che c’era dentro di
me. E allora iniziai a parlare, lo sguardo fisso fuori dal finestrino
dell’autobus che frugava attraverso le finestre delle abitazioni borghesi del
centro. Parlavo perdendo il filo dei miei pensieri, senza neppure tentare di
collegare le cose che dicevo. E lei mi ascoltava, meravigliata, come se tutte
le schifezze che le stavo rovesciando addosso fossero invece una cosa
preziosa, un dono importante che le stavo facendo.


ANDREA, SCUSALI, LORO NON SANNO QUELLO CHE FANNO
Alessia mi riconobbe subito.
– Jacopo, che piacere rivederti! Nessuno sapeva dov’eri finito. Mi fa piacere
trovarti bene.
Ma che cazzo di frase aveva usato, dopo anni che non ci vedevamo e dopo
quello che era successo? Il sangue mi saliva alla testa.
– Mi fa piacere che tu mi trovi bene, le dissi abbozzando un mezzo sorriso
sghembo.
– Ma guarda che coincidenza – sopraggiunse Mirko – e come vi siete
conosciuti?
La domanda mi prendeva imbarazzato, perché non sapevo cosa Mirko
sapeva del passato di Alessia, quello che lei avrebbe potuto tenergli
nascosto. Fortunatamente, fu lei a parlare:
– Abbiamo studiato chimica insieme. O meglio, lui studiava. Era
bravissimo. Spesso riusciva, negli esperimenti, meglio degli assistenti.
Abbiamo frequentato la stessa compagnia di amici, per un po’, poi io ho
lasciato perdere gli studi e ci siamo persi di vista.
Ebbi un sussulto. In effetti la cosa poteva anche essere letta in questo modo.
A un certo punto Alessia aveva deciso di lasciar perdere gli studi e non ci
eravamo più rivisti. La “compagnia di amici” si era sfaldata. L’espressione
mi faceva pensare a un gruppo di soggetti abbronzati, sorridenti, tutti
bellissimi, muscolosi e asciutti, intenti a brindare a un tavolino. Un po’
come le immagini che si trovano sui depliant turistici. Riuscii a stento a
trattenere una risata nel confrontare l’immagine che mi si era formata nella
mente con l’effettiva realtà del “gruppo di amici”. Ad ogni buon conto,
sembrava ragionevole come spiegazione.
– Che cosa posso offrirvi?
– Perché non ci fai due bei bicchieri di grogue?
Alessia intervenne:
– No, grazie, io preferirei un caffè.
Li feci accomodare a un tavolino nell’angolo da cui si godeva una bella
vista della spiaggia e portai loro quello che mi avevano chiesto. Nonostante
i miei maldestri tentativi di sembrare indaffarato, la serata era piuttosto
morta e alla fine arrivò il momento in cui Mirko mi invitò a sedere con loro.
Presi un bicchiere da cocktail, lo riempii fino all’orlo di un whisky di marca
scadente e mi sedetti al loro tavolo.
Cercai di mostrarmi quanto più cordiale mi fosse possibile, ma dopo le
inevitabili e inconsistenti frasi di rito, il silenzio si stese minaccioso.
Allora mi tornò in mente il giorno che avevo conosciuto Alessia, e presi in
mano la situazione. Senza guardarli negli occhi, lo sguardo perso da qualche
parte nello scaffale delle bottiglie, iniziai a parlare. Ma stavolta, niente di
privato. Parlai della nostra attività, di come sei anni prima Luca si fosse
stabilito qui a seguito di una storia finita male e avesse aperto una scuola di
diving, di come gli si fosse presentata, due anni dopo, la possibilità di
acquistare l’albergo e di come avessi deciso di impegnare tutti i miei
risparmi in quell’avventura. Poi chiesi del loro, di lavoro, e non fui sorpreso
del fatto che entrambi avessero una posizione normale e rispettabile: grafica
pubblicitaria lei, programmatore lui.
Non ricordo per quanto rimasi con loro, fatto sta che a un certo punto
Alessia diede di gomito a Mirko, si alzarono, mi salutarono cordialmente e
fecero per andarsene. Mi offrii di accompagnarli col pick-up: il villaggio nel
quale alloggiavano era a più di due chilometri di distanza; loro però mi
dissero che avrebbero preferito fare una passeggiata, così non insistetti e me
ne andai anch’io a dormire.
Mi fu difficile prendere sonno. Alessia mi aveva trattato quasi da estraneo e
nel vedermi non aveva tradito neppure una minima emozione, un sorriso.
Ripensavo alle numerose cose che con Alessia avevo condiviso, agli amici,
alle serate. Non potevo provare rimpianto per quel periodo della mia vita,
che aveva finito per catapultarmi su un’isola sperduta nell’oceano Atlantico
e ipotecare tutto il mio futuro. Del resto, emergeva chiaramente dal modo in
cui aveva affrontato l’argomento che neanche lei ne provava. Avrei forse
desiderato il contrario? Avrei forse voluto che lei sentisse il bisogno di
passare un po’ di tempo da sola con me, senza Mirko, per rivangare assieme
gli episodi che avevamo passato, per ridere e darci pacche sulle spalle, per
piangere e ricordare tutte le persone che si erano affacciate sulle nostre vite
per poi scomparire? Cosa volevo da lei? Non potevo semplicemente
ignorarla, lasciarla nell’angolino buio del mio cervello in cui era rimasta in
questi ultimi anni?


TRENTASEI ORE CONSECUTIVE
Dopo il nostro primo incontro, iniziai a passare tutte le mie giornate con
Alessia. La mattina andavo a prenderla in stazione e andavamo in
università assieme. Durante gli intervalli tra le lezioni andavamo a
passeggio per il centro o a prendere un tè da qualche parte. Siccome lei
abitava a Pontedera, la sera era complicato vedersi. Ma anche poche ore di
lontananza erano troppe per entrambi. Così capitava che andassi a trovarla
anche la sera e restassi a dormire da lei, in camera di suo fratello. Per
stare con lei avevo diradato le frequentazioni coi miei amici di Firenze. Ai
suoi genitori la mia presenza non dava fastidio, anzi lei aveva raccontato
loro la mia storia e evidentemente si erano mossi a compassione. O forse
pensavano addirittura che fossimo fidanzati.
Nel giro di qualche settimana, ero entrato nel giro dei suoi amici. Lei
voleva condividere con me le cose belle che aveva, ed aveva insistito con
tale vigore da vincere la mia timidezza e le mie resistenze. Non mi era mai
capitato di sentirmi così accolto e accettato da estranei. Non c’era stato
bisogno di frasi di circostanza, sorrisi di convenienza, interessi simulati.
Anzi, per certi versi non c’era nemmeno bisogno di parlare. Si sapeva, da
dove venivamo e dove saremmo andati a parare.
E saremmo andati a parare sulla spiaggia di Tirrenia, all’Imperiale. La
prima volta fu un sabato sera dell’aprile 1993. Io non avevo la più pallida
idea di dove sarei finito. Prima di allora ero andato a ballare rarissime
volte, nelle occasioni tipiche: feste comandate, compleanni, capodanni.
Però avevo imparato a fidarmi di Alessia, e in tutti i posti in cui ero andato
con lei avevo finito per sentirmi a mio agio. E poi questo Imperiale
ricorreva nei discorsi dei miei nuovi amici, e rappresentava per loro un
polo di attrazione. Non potevo perdermi un’esperienza del genere. E
neanche Niccolò poteva. Ancora non avevo avuto modo di presentargli
Alessia, ma quella mi era sembrata un’occasione perfetta. Lui fece un po’
di resistenza, ma alla fine si lasciò trascinare.
Fu quella sera che incontrammo Matteo per la prima volta. Originario di
Carrara, ma trapiantato a Firenze per studiare architettura, Matteo non
era una conoscenza diretta di Alessia, ma riforniva di ecstasy il suo gruppo,
e spesso andava a ballare con loro. Matteo faceva il corriere, ogni mese un
viaggio in auto in Olanda per il pieno, e poi smerciava la roba agli amici o
agli spacciatori al dettaglio che conosceva. Matteo era abbastanza diverso
da come potevo immaginarmi uno spacciatore. Faccia pulita, capelli chiari
lunghi, dimostrava meno della sua età, ma cionondimeno dava
l’impressione di essere una persona matura, controllata, che sapeva far
fronte alle situazioni. Insospettabile.
Fu lui a condurci quella sera. Prima a fare la tessera di iscrizione, poi su
per le scale, e infine entrammo nel locale. Erano circa le due. Una sala
enorme, aperta sul mare. Musica pesante, che sembrava staccarti da terra.
In console, accanto al deejay, c’era un tipo bassino e magrissimo, con dei
capelli neri lunghissimi, vestito tutto di pelle. Quel tipo era Franchino.
Appena vide entrare Matteo, prese il microfono:
– Ohhh, arriva Teo con due nuovi amici… ditemi i vostri nomi ragazzi…
allora benvenuti a Jacopo e Niccolò, la loro prima volta all’Imperiale…
Matteo si fece avanti sotto la consolle, tirò fuori dalle tasche tre pasticche e
le piazzò sul piatto che girava. Franchino le guardò girare per qualche
secondo con uno sguardo da bambino incuriosito. Ne prese una in mano e
se la mise in bocca. Poi ne prese un’altra e me la porse:
– Chicco, questa è la prima chicca della tua vita.
Non c’era da avere paura, era tutto così bello, vedevo in pista la gente che
ballava e si abbracciava. Sarebbe andato tutto bene. Presi la pasticca.
Sopra c’era disegnata una stella. Cacciai una risata isterica e me la ficcai
in gola. Niccolò sembrava più titubante, ma non poteva fare altro che
seguirmi. I ragazzi in pista applaudirono, e ci unimmo a loro a ballare.
Dopo una ventina di minuti iniziai a sentire una specie di formicolio caldo
alle braccia, molto piacevole. La sensazione di calore e di energia si
diffondeva, e dopo qualche altro minuto mi arrivò in testa. Le luci si
sdoppiavano davanti ai miei occhi. Mi sentivo trasportare verso l’alto. E
poi la botta. Come un’esplosione di luce. E allora mi sentii davvero bene.
In perfetta sintonia con il mondo, innamorato di tutto quello che avevo
attorno.
Una ragazza ballava vicino a me. Prima che mi salisse le avevo dato
un’occhiata. Poteva anche essere carina, ma come facevo al solito, col mio
consueto cinismo, le avevo trovato dei difetti, e avevo deciso che non valeva
la pena.
La guardai di nuovo. Era bellissima. Si muoveva alla perfezione. Aveva le
mani lunghe e convesse di una danzatrice orientale. Poi mi guardò e mi
sorrise. Il cuore iniziò a battermi forte. Non avevo mai provato nulla del
genere per una ragazza. Non ero mai stato innamorato. Tutto quello che
avevo provato prima di quel momento svaniva, sfumava, sembrava
irrilevante. Quello era l’amore. Iniziammo a ballare vicini, poi ci
prendemmo le mani e ci baciammo. Era meraviglioso. Quello era l’amore
romantico, quello che si legge nei libri, quello di cui tutti parlano. Era
quello che avevamo sempre cercato. Le persone intorno a noi ballavano e si
abbracciavano. Era quello che avevo sempre cercato.
Poi ci spostammo nel privé, che aveva delle comodissime poltroncine basse,
una finestra sulla spiaggia e un proiettore che sparava sul muro immagini
colorate. Marianna, si chiamava, e volevo sapere di lei, le raccontavo di
me, e le parole mi si formavano in bocca e uscivano fluide, quasi senza che
le controllassi.
Verso le cinque Marianna se ne andò e Matteo venne a recuperarmi.
– Vieni che ti presento a un po’ di amici.
Persone che, in altre situazioni, non avrei neppure considerato, o avrei
deriso con snobismo, quella sera mi sembravano persone eccezionali, come
me, e le parole mi fluivano lineari, e non sentivo nessun imbarazzo.
Ruggero di Flower Power, che ci invitò a casa sua a Quezzi per un risottino
ai funghi. Marco di Starlight, che lavorava nel settore “trasporti”, mentre il
suo socio Giovanni era “commerciante al dettaglio”. Raul, che diceva di
fare il “coltivatore diretto”. Dante Alighieri, al secolo un avvocato di Roma
che arrivava a Tirrenia col treno, vestito col completo scuro da ufficio,
scendeva in spiaggia e si cambiava indossando il costume del poeta. Un
filo rosso ci univa. Eravamo tutti stati rifiutati dall’ambiente al quale
eravamo predestinati. E ne avevamo consapevolezza. Quello che
cercavamo, in qualche modo, era una nuova famiglia.
Scendemmo in spiaggia. Vidi Niccolò ed Alessia che passeggiavano
tenendosi per mano. Ci sedemmo sulla sabbia a parlare, come se ci fossimo
conosciuti da una vita. Era così che avrei immaginato un fratello maggiore.
E alla fine, come un fratello maggiore avrebbe fatto, mi sottopose a un rito
di iniziazione. Camminammo per parecchi minuti sulla sabbia fino ad
arrivare a una palazzina abbandonata, a quanto pare una colonia estiva
costruita nel ventennio. Entrammo e salimmo le scale, e la luce della luna
filtrava attraverso gli enormi lucernari. Arrivammo in una sala con diversi
finestroni. Matteo si tolse la giacca ed estrasse una pistola dalla cintura.
Me la porse.
– Fidati – disse.
Feci fuoco, e vidi una crepa che si disegnava sul vetro come una ragnatela,
vidi i pezzi saltare qua e la è riflettere la luce della luna sulle pareti, come
una scena al rallentatore. Lanciai allora un grido belluino, liberatorio. Un
qualcosa che da lungo premeva dentro di me si era finalmente liberato.


NON STATECI VICINO, PERICOLO DI MORTE
Con l’aiuto di un po’ di alcool, la notte dormii profondamente e la mattina
mi svegliai di buon’ora, deciso ad archiviare l’esperienza della sera
precedente e, soprattutto, il ricordo di Alessia. Mi rendevo conto da solo,
tuttavia, che la speranza che Mirko non si ripresentasse era del tutto vana.
Oggi è venerdì, pensavo mentre mi recavo all’aeroporto a riprendere Luca.
Dovrebbero ripartire domani o al massimo dopodomani. Può darsi che, al
più, vengano a salutarmi stasera dopo cena.
Il piccolo bimotore a elica atterrò che la pista era ancora piena di capre. Il
pilota scese e aprì il vano bagagli; i passeggeri si precipitarono a rovistare
per cercare la propria valigia. Luca si fece avanti, mi salutò e insieme
salimmo sul furgone. Non feci parola dell’incontro del giorno precedente,
ma lui si avvide del mio turbamento:
– Mi sembri più cupo del solito, è successo qualcosa?
Ma stavo cercando di dimenticare quell’incontro, e parlarne mi sembrava il
modo peggiore per farlo. Quindi preferii lasciar cadere.
– No, niente, diciamo che sull’isola c’è una mia vecchia conoscenza. Ma
non dovrebbe creare problemi.
La vecchia conoscenza non si fece rivedere, ma come sospettavo, la nuova
conoscenza mi aspettava invece al bancone del bar per gustare il nostro
ottimo caffè. Luca si fece avanti e si presentò; Mirko lo colmò subito di
orgoglio dicendogli che il nostro caffè era il migliore che avesse mai
gustato, anche in Italia. Luca gli sorrise e se ne andò nella sua camera a
posare il bagaglio.
– Allora, come va?
– Bene, passavo a fare un giro. Alessia è in spiaggia a prendere il sole.
– Ah.
Il silenzio si frappose tra noi. Perché era venuto da solo? Alessia non voleva
vedermi? Di nuovo, le parole mi uscirono incontrollate:
– Senti, immagino che domani o dopodomani ripartiate, no?
– Si, domani a mezzogiorno.
– Allora perché stasera non venite con me a fare un giro, vi porto nel
deserto.
– Mi farebbe molto piacere. Veniamo da te dopo cena, allora?
Mi morsi le labbra ripensando a quello che gli avevo proposto.
– Si, va bene. Ci vediamo dopo.
Passandomi le mani tra i capelli, raggiunsi Luca nel suo appartamento.
– Ma chi era, quello la tua vecchia conoscenza? Mi sembra piuttosto
innocuo.
– No, in realtà è sua moglie. Anche lei è innocua, almeno in senso stretto.
Mi sa che l’ho combinata grossa. Gli ho promesso che stanotte li avrei
portati nel deserto.
– E allora? Non è certo la prima volta che portiamo qualcuno nel deserto di
notte.
– No, è che non so se mi va di farlo. Ma le parole mi sono come uscite da
sole.
– Chissà, forse desideri inconsciamente liberarti di entrambi… ad ogni
modo la pistola la tengo io.
Luca sorrise, e anch’io restituii il sorriso. Chissà, davvero, come erano
saltate fuori quelle parole. Certo è che Alessia, di notte, si faceva molto
bella. Di giorno non era nulla di speciale, e non la si sarebbe potuta dire una
bella ragazza. D’accordo, le sue movenze avevano un certo fascino, ma
esteticamente era piuttosto anonima. Alla luce della notte invece si
trasformava. Le si illuminavano gli occhi. Piccoli, color nocciola,
diventavano come due piccoli fari scintillanti. Forse avevo il desiderio di
rivederla come meglio la ricordavo. Nel buio completo, alla luce della luna.
La sera prima non mi aveva fatto una grande impressione. Molto curata,
abbronzata e ben truccata, sembrava però piuttosto invecchiata, e aveva
apparentemente perso la freschezza che mi ricordavo esserle propria.
Passai il resto pomeriggio a pregustarmi la visione serale del volto di
Alessia illuminato dalla luce della luna. E pensavo anche a come mai non si
era fatta viva per rivedermi da sola. L’altra sera ci eravamo trattati quasi da
estranei. Possibile non avesse voglia di rivedermi, di abbracciarmi? Certo,
neanche io sapevo se avevo davvero voglia di rivederla, di sicuro un
incontro più intimo avrebbe potuto riaprire ferite ancora pronte a
sanguinare.
Fui sorpreso quando, alla sera, vidi arrivare Mirko da solo.
– E tua moglie dove l’hai lasciata?
– Non è voluta venire, ha detto che l’escursione nel deserto l’abbiamo già
fatta.
– Ma di notte è tutta un’altra cosa!
– È quello che le ho detto anch’io, ma non c’è stato verso di farla ragionare.
– Beh, peggio per sé, non sa quello che si perde. Ma tu vuoi andare lo
stesso?
– Certo, sono qui apposta.
– E la lasci da sola?
– Si, mi ha già rotto le scatole con questo comportamento.
Mentre guidavo e la voce di Mirko mi raccontava del lavoro di Alessia,
pensavo tra me e me:
– Almeno questa volta ha una buona ragione per non presentarsi.
Era davvero così, o ero io che attribuivo importanza eccessiva alla mia
figura? Poteva benissimo darsi che per lei, oramai, non fossi altro che un
imbarazzante fardello del suo passato. O addirittura niente, né un fardello,
né tantomeno imbarazzante.
Il deserto di Viana occupa una porzione relativamente piccola dell’isola e si
estende per circa 50 chilometri quadrati. Tuttavia, è un deserto vero e
proprio, con la sabbia e le dune. La sabbia, per l’appunto, arriva dal deserto
del Sahara, portata dal vento. Di giorno è molto bello, la notte è
meraviglioso. La sabbia diventa gelida, e con la luna piena e alta nel cielo
prende un colore argenteo indescrivibile. Arrivammo allo spiazzo antistante
l’inizio delle prime dune, dove di solito si fermano i giri turistici.
– Scommetto che vi hanno fatto scendere qui e vi hanno fatto fare quattro
passi tra queste prime dune, sbaglio?
– No, effettivamente non ci siamo allontanati da qui…
– Adesso ti faccio vedere il vero deserto.
Innestai la trazione integrale e portai il furgone fuoristrada, costeggiando le
dune. Dopo un paio di chilometri, quando ormai le luci del villaggio di
Rabil non erano più vista, fermai il motore.
– Eccoci qua, in questa zona non ci viene quasi mai nessuno. E sì che è una
delle più belle di tutta l’isola, perché da qui si vedono bene le montagne
dell’interno.
Avanzammo sulla sabbia per qualche centinaio di metri, e nel momento in
cui il furgone scomparve dal nostro orizzonte, nascosto dalle dune, mi
fermai. Con le mani sui fianchi, alzai lo sguardo verso i monti. La luna alta
nel cielo dipingeva il cielo di blu notte, e la sagoma nera delle montagne
nascondeva un tratto di cielo stellato. Mirko mi imitò. Evidentemente, il
momento gli suggeriva delle riflessioni.
– Sai che ho conosciuto Alessia in un modo bizzarro? In un viaggio con
Avventure nel Mondo, a Cuba. Lei era con un’amica, io invece ero da
solo. Se ci ripenso, allora mi sembrava un tipo così diverso…
Pausa.
– Hai presente il classico colpo di fulmine? Come un’attrazione irresistibile.
Annuii con fare distratto. Mirko se ne avvide.
– Ma… che c’è che non va, perché non ti va di parlarne? Dì la verità, hai
avuto una storia con mia moglie?
A questo punto mi aveva praticamente incastrato. Non mentii, ma non ce la
feci a dirgli tutta la verità.
– No, a dire la verità no. Certo, eravamo ottimi amici, diciamo che ero il suo
confidente… Abbiamo frequentato lo stesso gruppo di amici per qualche
anno. Alessia ha conosciuto Niccolò, il mio più caro amico, e sono stati
insieme per un po’. Avevamo passato tutta l’infanzia insieme, alle scuole
elementari, ai giardini, poi alle medie, al liceo.
Mi alzai bruscamente in piedi. Avevo voglia di correre via, di tuffarmi nella
sabbia gelida e scomparire. Chiusi rapidamente il discorso parlando di un
incidente in cui Niccolò aveva perso la vita.
– Ah, capisco, ecco perché non ti va di parlarne. Effettivamente mi ero
accorto della cosa già l’altra sera, era come se in qualche modo tu cercassi
di evitare Alessia. Adesso capisco anche perché lei non sia voluta venire
stasera. Sai, mi ha parlato tante volte di Niccolò, quando ci siamo
conosciuti lei era ancora molto legata al suo ricordo. Una cosa terribile
quell’incidente, pensare che Alessia doveva essere in macchina con lui!
Buffo, anche Alessia aveva avuto la stessa idea, anche lei gli aveva parlato
di un incidente. E nella sua ricostruzione lei pure avrebbe dovuto esser
morta.
– Senti, guarda, non so come dirtelo, ma insomma, ecco, mi sento un po’ a
disagio… forse è meglio che ti riaccompagni al villaggio.
– Certo, capisco. Non preoccuparti.
Non ho mai creduto alle storie sul destino, sugli eventi che devono
accadere. Fatto sta, comunque, che entrambe le ruote anteriori del furgone
erano a terra. Si vede che stavolta non potevo scappare. Cercai di dar mostra
di aver preso la cosa con sufficiente ironia:
– Allora Mirko, forse ti sarai già accorto che su quest’isola non ci sono i
telefoni cellulari. Quindi ci aspetta una bella passeggiata, a meno che tu
non voglia aspettare che Luca si preoccupi e ci venga a cercare.
Un mezzo sorriso sghembo mi si stampò sulla faccia.
Non so per quale ragione, ma quell’inaspettata avventura mi indusse ad
aprirmi. Mentre camminavamo alla luce della luna, guidati dalla posizione
delle stelle, parlai a Mirko della mia infanzia con Niccolò, del nostro
crescere insieme, dell’incontro con Alessia.
– Due persone insolite. Stavamo quasi sempre per conto nostro, fin da
piccoli. Al liceo, negli anni in cui tutti più o meno partecipano ai gruppi di
amici, alle feste, beh, noi ci vedevamo solo con Luca e con altri pochi per
fare giochi di ruolo. All’università le nostre strade si separarono per un
breve periodo. Lui si iscrisse a Giurisprudenza, io a Chimica. Il primo
anno, io persi entrambi i miei genitori e mi tuffai completamente nello
studio. Fu l’anno dopo che conobbi Alessia. Lei fu molto preziosa per me:
l’unica persona che sapeva ascoltarmi in quel periodo. La presentai a
Niccolò, e lui se ne innamorò subito. Fu così che iniziammo a uscire col
suo gruppo di amici. In un certo senso fu una cosa benefica per entrambi.
Ci portò in qualche modo a uscire dal guscio nel quale eravamo venuti su.
– Che strano, per come conosco Alessia ora non la direi un tipo che può
trascinare, coinvolgere in giri di amicizie. Quando l’ho conosciuta era da
sola con questa sua amica, Denise. Magari l’hai conosciuta anche tu, sono
amiche d’infanzia.
Denise, certo che l’avevo conosciuta. Anche lei era rimasta in un angolino
buio dei miei ricordi. Bastava nulla per far riaffiorare tutto.
Continuammo a camminare conversando piacevolmente su questa falsariga.
Mirko mi raccontò della sua storia con Alessia, di come l’aveva corteggiata
e delle cose che avevano fatto assieme. Non affrontai di nuovo la morte di
Niccolò, né mi spinsi a raccontare cosa ci era capitato dopo esserci
ambientati nel gruppo di amici di Alessia. Per arrivare all’albergo ci vollero
più di quattro ore. Com’era prevedibile, Alessia, allarmata per il ritardo del
marito, era arrivata all’albergo. Si vedeva già da lontano che era furiosa.
Luca, che si trovava seduto a uno dei tavolini del bar di fronte a lei, stava
cercando di placarla, con scarsi risultati immaginavo.
Appena mi vide mi si gettò addosso e mi appiccicò uno schiaffo.
– Ma che cavolo ti sei messo in testa di fare, eh?!?
Riuscii a mantenere la calma:
– Niente, siamo semplicemente andati a vedere il deserto di notte. Abbiamo
forato entrambe le ruote anteriori del furgone, tutto qui. Può capitare.
– Può capitare un cazzo!!! Cos’era, un’altra delle tue avventure del cavolo?
Ma perché devi mettere sempre in pericolo le persone che ti stanno vicino,
eh?!? Non ti è bastato Niccolò, volevi prenderti pure Mirko?!?
Mirko spostava freneticamente lo sguardo da me a sua moglie con aria
interrogativa. Fu allora che persi completamente le staffe:
– Certo che hai un bel coraggio a tirare fuori Niccolò adesso! Se non ti
avessimo conosciuto saremmo ancora due sfigati di buona famiglia, lui
farebbe l’avvocato o il notaio e io di sicuro non sarei su quest’isola
deserta del cazzo!!! Se c’è qualcuno che si è preso Niccolò, quella sei tu.
Afferrai la bottiglia di grogue che si trovava sul tavolo, ne bevvi un sorso
convulso che mi fece quasi soffocare e la scaraventai contro la parete. La
bottiglia andò in mille pezzi, e i frammenti di vetro lanciarono per un istante
lampi colorati sul soffitto. Col volto rigato di lacrime miste di rabbia e
dolore mi precipitai su per le scale. Trovai la forza per reprimere i
singhiozzi, mi voltai e gridai:
– Ma perché non mi lasciate in pace?!?



L’IMPERIALE VUOL DIRE AMARSI, VUOL DIRE: FACCIAMO
L’AMORE
Denise era la migliore amica di Alessia. Non fu tra le prime persone che
conobbi del mio nuovo gruppo di amici: si trovava a Londra per un
soggiorno di studi quando fui introdotto. Una sera di giugno ero passato a
prendere Alessia per andare all’Imperiale e poi c’eravamo fermati a
prendere Denise, a Ponsacco. Io all’inizio avevo detto a Alessia che le avrei
aspettate in macchina; fu lei a insistere perché scendessi. Denise abitava in
una villa moderna alle porte del paese, con un ampio giardino recintato e
una bella piscina. Il padre era un ricco industriale mobiliere.
Quando entrammo nella sua stanza, era ancora seminuda. La camera era
quella di una preadolescente: letto a baldacchino bianco, carata da parati
color lavanda, un numero impressionante di bambole. Ci incrociammo lo
sguardo, e provai subito per lei una fortissima attrazione. Denise aveva un
viso un po’ sgraziato, ma un fisico perfetto e due occhi magnetici neri come
il carbone. Lei mi squadrò e mi sorrise.
– Alessia me lo devi prestare per un attimo – disse.
– Bene, io nel frattempo vado in cucina a farmi un caffè.
Denise chiuse la porta e mi prese per le mani. Io non avevo ben chiaro cosa
si aspettasse che io facessi, ma fu lei a condurre il gioco, e finì che
facemmo l’amore sul suo letto con le bambole. Alessia non mostrò di essere
colpita dalla cosa; evidentemente doveva essere abituata a comportamenti
del genere, pensai.
La cosa buffa con Denise era che tutte le volte che ci vedevamo non c’era
mai da far conversazione, e si arrivava subito al dunque. Spesso,
all’Imperiale, ci cercavamo in pista con lo sguardo, uno dei due prendeva
l’altro per mano, e abbracciati scendevamo in spiaggia a fare l’amore,
senza dirsi una parola.
– Chicco e Denise se ne vanno, vanno a fare all’amore… bravi, fate bene
cari, fate bene… – annunciava Franchino al microfono.
Invece per Alessia e Niccolò era diverso. Anche loro scendevano in
spiaggia abbracciati, ma loro parlavano, si sfogavano, si raccontavano. Un
po’ come Alessia era la mia confidente, Niccolò era il confidente di lei.
Niccolò era una persona molto più equilibrata di me, e in quel ruolo era
perfetto. L’ascoltava, la coccolava, si prendeva cura di lei.
Solo dopo diverse settimane che si frequentavano scoppiò la scintilla e si
baciarono. Io continuavo a vedere Alessia in università e a sentirla
regolarmente. Lei si consigliava con me e mi chiedeva di Niccolò, voleva
sapere se averlo baciato ed essersi mettersi insieme a lui era stata una
buona idea o avrebbe rovinato tutto. Io non la vedevo tanto in questi
termini, e oscillavo tra la convinzione che stare con Alessia a Niccolò
avrebbe fatto senz’altro benissimo e il presagio che ne sarebbe venuto fuori
qualcosa di disastroso.

2 commenti:

  1. guarda, io questo racconto lo trovai tanti anni fa a questo link http://www.webalice.it/marcojl/papers/Cattura.pdf ... facendo 2+2 e seguendo il nome del sito, secondo me, l'autore è costui http://www.webalice.it/marcojl/ (copia ed incolla il link) uno che ora fa il post doc a firenze, uno statistico, che lavora con un professore che conosco e che ha tutta l'aria di aver passato gli anni 90 a ballare dalle sue parti, cioè tra Firenze, Pisa e Tirrenia :)
    Ciao Zappa, viva Berlin!

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